DAL “MIO” TENSIONALISMO FILOSOFICO AL TENSIONALISMO TEOLOGICO DI PRZYWARA

 Ciò che caratterizza l’uomo in quanto uomo è la tensione verso il divino. Questa è la tesi di fondo del pensiero di un grande teologo polacco del secolo scorso: Erich Przywara (1889-1972), che Papa Francesco ha definito “grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar” (in E. PRZYWARA, Che “cosa” è Dio?, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, p. 56), quindi di tutta la più recente e raffinata teologia cattolica.

E’ anche la mia tesi, dal momento che io mi picco di avere, non dico fondato, ma ridato fiato (solo un po’ di fiato), ad una corrente filosofica che è sempre esistita nel corso della filosofia occidentale, da Socrate in poi: il tensionalismo. Esso si basa sul riconoscimento dei limiti della conoscenza umana, secondo quanto stabilito da Kant nelle sue Critiche, ma anche sulla possibilità di oltrepassare tali limiti aporeticamente, ossia problematicamente, grazie ad una dialettica discorsiva d’impronta gentiliana, libera dalla presunzione hegeliana di possedere la verità assoluta.

La principale guida che ho seguito, e consiglio di seguire, nella esplorazione del complesso pensiero di Przywara è quella di Vittorio Mathieu, autore di una densa ed acuta introduzione all’opera del Nostro intitolata L’uomo (1958). Mathieu sostiene che, nel pensiero di Przywara, agisce “una tensione vivissima verso il divino, accompagnata dal senso di una nostra radicale incapacità e insufficienza a possederlo” (in E. PRZYWARA, L’uomo, Fabbri, Milano 1968, p. 4) e che tale tensione evita il rischio di “umanizzare” Dio. Tale umanizzazione equivarrebbe ad una banalizzazione che, specialmente oggi come oggi nell’era dell’intelligenza artificiale, sarebbe del tutto improponibile.

A sua volta Przywara si rifà a Nicolò Cusano, di cui mi sono già occupato, sia pure in forma romanzata, nel mio Doctor Apulicus (2018), per il quale, specialmente quando parliamo di Dio, vale la “dotta ignoranza” e la coincidentia oppositorum, cioè il superamento di tutte le opposizioni logiche in una superiore visione intellettuale, in grado di abbracciare di un sol colpo l’Uno-tutto. Successivamente, nel suo capolavoro assoluto intitolato Analogia entis (1962), Przywara va oltre la teologia negativa o apofatica (quella che si limita a dire solo ciò che Dio non è), grazie al concetto tomistico di analogia entis, non a caso inviso a chi, come Lutero e Barth, vede nella ragione la prostituta del diavolo. Tale concetto è in grado di farci conoscere il ridondante spessore ontologico di Dio, per cui Deus semper major, e ci ripara sia dall’immanentismo delle filosofie antropocentriche, come il positivismo, il marxismo, il nichilismo nietzscheano, ecc., sia dall’arido trascendentismo della metafisica della sostanza, che, rimanendo fedele ad Aristotele, c’impedisce di vedere in Dio un padre ed un fratello, alla luce del più genuino insegnamento cristiano. Gli è che Dio è sì “dentro di noi”, secondo l’esortazione agostiniana al Redi in te ipsum, in interiore homine habitat veritas (=Rientra in te stesso, nell’uomo interiore abita la verità), sia “sopra di noi”, perché è l’Essere trascendente maggiore del quale non se ne può assolutamente pensare un altro (vedi la prova cosiddetta ontologica di S. Anselmo d’Aosta). Questo “dentro-fuori” è la cifra della teologia di Przywara ed è anche la molla che fa scattare la duplice tensione del divino verso l’umano nella persona di Gesù Cristo e dell’umano verso il divino in ciascun uomo cosciente di sé e del suo insopprimibile anelito all’incondizionato.

Infine, la migliore sintesi di questi due ponderosi e impegnativi volumi, la possiamo trovare in un agile opuscolo che raccomando a tutti di leggere: Che “cosa” è Dio? In esso, Przywara dice che “Dio si è posto ai limiti della creatura non solo come limite formale, ma come contenuto di una misura ideale verso cui, all’infinito, ogni divenire e lottare della creatura continua a tendere: in quanto verità, bontà e bellezza ideale, e quindi in quanto essere ideale” (Op. cit., p. 139). In questa tensione infinita visse intensamente Przywara, e, grazie a lui, in questa tensione infinita possiamo vivere anche noi, per salvarci l’anima sì, ma anche e soprattutto per dare un senso al nostro stare al mondo.

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13 commenti su “DAL “MIO” TENSIONALISMO FILOSOFICO AL TENSIONALISMO TEOLOGICO DI PRZYWARA

  1. Anonimo ha detto:

    “Filosoficamente” parlando è un commento erudito e centrato… il fatto è che Dio è semplice, ma non facile: come ne ha parlato Gesù? Anche un bambino lo poteva capire e, allo stesso tempo, siamo ancora qui, dopo duemila anni, che attingiamo alla profondità dei suoi discorsi, come ad una miniera che non si esaurisce mai…

  2. aldosimone ha detto:

    Osservazione profonda che mi fa venire subito in mente il famoso “Sinite parvulos venire ad me”. Eppure, rimane ancora tanto da dire, da pensare e, perché no, da pregare. In latino, possibilmente, seguendo l’insegnamento del nostro Rosmini: “I vantaggi che si hanno conservando le lingue antiche sono principalmente: il rappresentare che fanno le antiche Liturgie l’immutabilità della fede; l’unire molti popoli cristiani in un solo rito, con un medesimo sacro linguaggio, facendo loro così sentire viammeglio l’unità e la grandezza della Chiesa e la comune loro fratellanza; l’avere qualche cosa di venerabile e di misterioso una lingua antica e sacra quasi linguaggio sovrumano e celeste…l’infondersi un cotal sentimento di fiducia in chi sa di pregare Iddio colle stesse parole, colle quali il pregarono per tanti secoli innumerevoli uomini santi e padri nostri in Cristo; l’essere le antiche lingue oggimai conformate per opera dei Santi ad esprimere convenientemente tutti i divini misteri” (A. ROSMINI, “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa”, BUR, Milano 1996, pp. 30-31). Ci tengo a questo punto a precisare che la suddetta posizione a favore del Rito romano antico non è in contraddizione con l’ interesse per Przywara, Guardini e Balthasar, teologi fortemente innovatori sul piano speculativo, perché anch’essi manifestano un grande amore per la Tradizione Cattolica, sia pure mutatis mutandis!

    • Anonimo ha detto:

      Ciao Aldo sono disperato il mio telefono non mi permette l’ invio. Non so.

      • Anonimo ha detto:

        Tensionalismo. 20/1/2024.
        S. Di Liberto.

        Dalle origini del tempo attraverso i Patriarchi Adamo, Noè, Abramo, Mosè fino al Redentore, Dio ha teso la sua misericordiosa mano di salvezza all’ umanità. Dio pertanto può essere considerato il primo tensionalista che ha dato gli strumenti all’uomo affinché al passar dei millenni trovasse la Via per TENDERE a LUI. Il Padre tende al figlio affinché il figlio tenda al Padre.
        Dal rimprovero dell’Eden, al diluvio universale, alle tavole della legge sul Sinai, alla ispirazione dei profeti preveggenti fino al Sacrificio del Figlio Prediletto sul Golgota.
        Si arriva così al Nuovo Testamento ed all’ Era Cristiana che con il cattolicesimo ha maggiormente proseguito l’ Evangelizzazione:
        tra periodi di tragico oscurantismo (Inquisizione) e periodi di ispirazione divina e santificazione.
        Il Tensionalismo, al quale il prof. Simone “si picca di ridar fiato”, ha una ragione di esistere ed insistere con l’aiuto della filosofia antica (Socrate) e moderna (Przywara, Gentile ed altri). Filosofia che io profano invoco con disinvoltura.
        Questi sacri capisaldi hanno sentito il richiamo di Dio che li ha chiamati per TENDERE a Lui.
        “Gli è che”, caro professor Simone, le trasformazioni della società dei nostri tempi avvengono ad una velocità impensabile già rispetto a qualche secolo fa. Il pensiero umano, avviluppato nel frastuono osceno del consumismo comodo ed oltraggioso, non percepisce e non distingue il richiamo che la voce di Dio continuamente rivolge a noi: “Vieni, tendi a me figlio mio, ricordati, però, che potrai SOLO tendere a Me, nel tuo stato di immanenza, ma dovrai fermarti al limite, per te invalicabile, della Trascendenza.
        Tu che MI hai cercato mi ritroverai alla fine dei tempi, caro figlio, ed io ti abbraccerò nella mia immensa luce”.

  3. aldosimone ha detto:

    Caro dottor Sebastiano Di Liberto, hai colto il senso della mia ricerca e te ne sono grato. Purtroppo non è facile di questi tempi parlare di Dio, ma forse non lo è mai stato, perché a Dio piace nascondersi, per poi manifestarsi come solo a Lui riesce di fare; sottrarsi, per poi palesarsi nei momenti più inaspettati; velarsi, per poi disvelarsi in situazioni limite, secondo una logica inafferrabile ma non effimera. Penso che l’uomo, nel suo rapporto con Dio, debba comportarsi come un acrobata: lanciarsi nel vuoto, sfruttando sia lo slancio impressogli dal trapezio da cui spicca il volo, ossia fuor di metafora dalla ragione, sia l’aiuto che gli viene offerto dall’altro trapezio che gli viene incontro, ossia fuor di metafora dalla fede nella verità che la Chiesa e i suoi Santi professano da secoli. A qualcuno, come al saltimbanco che Nietzsche paragona all’ultimo uomo (cfr. F. NIETZSCHE, “Così parlò Zarathustra”, Mursia, Milano 1965, p. 25), questo salto può essere fatale, non riesce, ad altri invece riesce, almeno in parte. Nessuno si può illudere che sia un’operazione facile e nessuno deve o dovrebbe disperare di poterla compiere: “Tu non mi cercheresti – fa dire Pascal a Dio – se non mi possedessi. Dunque non inquietarti”. (B. PASCAL, “Pensieri”, Edizioni Paoline, Roma 1979, p. 399).

    • Anonimo ha detto:

      Grazie per la tua cortese ed erudita risposta. Siamo tutti alla ricerca di Dio, caro Aldo, ognuno a suo modo, ognuno per la sua via, delle infinite, che conducono a Lui.
      Penso che, nonostante la disinvoltura del tempo moderno, la Speranza di Salvezza non debba mai morire. Francesco si trova in un periodo di ardua transizione e, a suo modo, cerca di condurre il gregge in salvo con la tolleranza ed il perdono. Non so se tutto il gregge ce la farà. Benedetto XVI aveva previsto che ci salverà proprio “Un Piccolo Gregge”. Speriamo di esser degni di appartenervi.
      Un abbraccio. Con stima.

  4. aldosimone ha detto:

    Sulla figura di Papa Francesco mi sono espresso già altre volte su questo blog, tuttavia non posso certamente dire di essermi espresso una volta per tutte. Infatti, col passare del tempo, i giudizi e le opinioni sui protagonisti della Storia non possono non cambiare, specialmente se sono ancora in vita. In ogni caso, va detto che stiamo parlando, appunto, di un “protagonista della Storia”, che non può essere liquidato sprezzantemente, come hanno fatto di volta in volta Antonio Socci, Diego Fusaro e, più recentemente, Andrea Cionci, col suo “Codice Ratzinger”. Avremo modo di parlarne ancora. Ricambio stima e affetto.

  5. Anonimo ha detto:

    Di Sergio Rossi
    Aldo, mando alcune riflessioni. Mi scuso perché possono essere a volte contorte.
    Quando sperimentiamo una dolorosa mancanza, quando soffriamo per una perdita senza avere la possibilità di porvi rimedio, a questa perdita (o a ogni altro limite umano) possiamo reagire (1) cercando una ragione, una motivazione, e allora elaboriamo un sistema di idee, una teoria dell’esistenza in cui la mancanza o il limite, che ci affliggono, trovano la loro spiegazione e ci indicano anche il modo per superare tale perdita o tale mancanza. In altre parole la nostra condizione di sofferenza ci spinge a trovare una causa economica, sociale, culturale ecc. e a combattere tale causa così da trovare una spiegazione e impiegare l’energia ribollente che sentiamo dentro di noi per cercare una consolazione o un rimedio. Oppure (2) la perdita, il limite, la sofferenza si possono attribuire a una volontà ‘soprannaturale’ a una ragione trascendente, il cui senso ci sfugge nella sua interezza, ma che ci può guidare a cercare seguendo una giusta via (Dio) la causa profonda dei nostri limiti.
    Nel coso della storia in molti modi si è cercato di raggiungere (con la teoria e con la prassi) una risposta alle mancanze e alle privazioni.
    Nel mito platonico il demone Eros è figlio di abbondanza e povertà, di ignoranza ma anche di desiderio di conoscenza. La tensione nasce dalla mancanza, dalla privazione e dal desiderio di colmare il vuoto che si è creato. Per Platone la contemplazione del mondo delle idee, e quindi della verità, è il punto di arrivo dei filosofi, quindi un obiettivo che gli uomini (pochi filosofi) possono raggiungere.

    Questo preambolo per introdurre la mia tesi rispetto alla insaziabile tensione verso Dio, ciò di cui (secondo la tua citazione di Anselmo d’Aosta) non si può pensare nulla di più grande e perfetto.
    Io penso (detto grossolanamente) che la ricerca del divino ( peraltro mai raggiungibile in modo soddisfacente) e che è identificato con il bello, il buono, il vero in realtà altro non sia che il riflesso di un enorme vuoto esistenziale, di una mancanza di pienezza di vita, di una insoddisfazione nei confronti di se stessi e delle proprie ambizioni esistenziali. Una vita carente di realizzazioni (spesso e volentieri guardate con sdegno e disprezzo) e tuttavia una vita intellettualmente estremamente esigente, incapace di accontentarsi del risultato parziale. Una vita consapevole di non poter raggiungere la pienezza assoluta, visto i limiti umani. La tensione verso il divino è la proiezione di un fortissimo desiderio (che si è spogliato di ogni rivestimento carnale) in una trascendenza irraggiungibile sulla terra. Voler raggiungere Dio è segno di una grandiosa volontà di potenza. Una vita che si rende conto della propria vuotezza, ma accetta questo vuoto. Una vita che non accetta e non vuol convivere con i normali limiti umani e si costruisce un illusorio luogo futuro e appunto trascendente, dove ogni limite sarà scomparso.
    Non credo che il teologo polacco Przywara abbia affermato che Dio si raggiunga nello scioglimento mistico dell’anima in Dio stesso. Sarebbe ciò inteso come il tentativo di trovare una scorciatoia per giungere a un appagamento totale nel dissolversi della propria personalità. E’ troppo intellettualmente ambizioso e ascetico per abbandonarsi alla voluttà dell’estasi.
    In sostanza l’anelito mai appagato di giungere a Dio testimonia da un lato la condizione di insoddisfazione della condizione dell’uomo, dall’altra rivela l’incapacità di trovare risposte appaganti ai propri limiti.

    Quando ero ancora molto piccolo pensavo questo. Dio non può essere onnipotente in quanto non è onniscente. Infatti quanto noi uomini facciamo, pensiamo, costruiamo va a cambiare i contenuti del pensiero di Dio. Vale a dire l’umanità modifica Dio. Se poi si assumesse invece che Dio sa già dall’inizio come gli uomini si comportano, allora noi siamo altro che dei burattini.
    Sono sempre convinto che avesse ragione Feuerbach quando ha scritto che l’uomo è il creatore di Dio. Che senso ha affermare che in Dio si trovano la verità, il bene, il bello ideali? E soprattutto che in ciò consiste la vera felicità? Se non conosciamo il contenuto di Dio, come possiamo dire che là possiamo trovare l’appagamento assoluto? E se non lo conosciamo (nella misura in cui pensiamo di non conoscerlo) Dio è un contenitore vuoto, molto astratto, freddo e asettico. In realtà proiettiamo in lui i nostri aneliti, la soluzione dei nostri bisogni e mancanze. Solo per questo si anela a lui: perché Dio è molto umano.
    Il teologo polacco parla di eccessi e paradossi dell’amore di Dio. Qui si intende da parte di Dio oppure verso Dio? Se l’espressione intende l’amore che Dio ha verso gli uomini, mi insorgono molti dubbi. Come può Dio amare il mondo atomo opaco del male? Dio si diverte veder soffrire? Oppure si deve intendere che Dio non può controllare il male, che questo è una necessità? Ma allora Dio non è onnipotente, e allora cosa è? Un alleato o un nemico dell’uomo? Si può certo dire che siccome Dio non può essere conosciuto, noi non ci possiamo spiegare il male, che per noi rimane quindi un mistero imperscrutabile. Solo la visione beatifica nell’al di là ci darebbe la vera comprensione. (Il teologo polacco ama non Dio, bensì se stesso che cerca di far saltare i limiti umani che lo separano da Dio).
    Se questa è la tesi sostenuta dai teologi, devo ricorrere a quanto detto all’inizio: il Dio trascendente, assoluto ecc. ecc. è espressione della incapacità di spiegare la condizione della sofferenza umana e quindi espressione del tentativo di rimandare il tutto l’inspiuagabile nel mistero di Dio, verso il quale bisogna tendere, ma che non si rivela perché trascendente.
    Vorrei concludere brevemente con un’ultima considerazione, dopo anche aver letto qualcosa del teologo Hans Kueng. Per il cristiano la via verso Dio coincide con la via verso il prossimo. Se noi pensiamo che Dio ci ama, noi viviamo necessariamente questo amore con gli altri e verso gli altri. L’amore per Dio è anche amore per gli altri ( Da questo vi riconosceranno: se vi amate …) . L’irresistibile tensione verso il divino e dal divino allora non può essere che un amore completo verso il prossimo. In questo amore per l’altro si sperimenta il buono, il bello, il vero e quindi il desiderio della tensione è qui appagato, non a livello intellettuale bensì a livello pratico (del resto Paolo di Tarso non aveva una grande stima dei sapienti). (Inciso: non ho mai capito cosa avessero di molto cristiano i monaci: fuggono ‘il mondo’ e cercano Dio in se stessi. E il prossimo?)
    In conclusione io penso che il nostro teologo polacco (che conosco solo per aver letto la sua presentazione grazie a Aldo), oltre a essere sicuramente un grande intellettuale, sia espressione di una casta, staccata apparentemente dal ‘mondo’ ( in realtà la chiesa polacca ha goduto sempre di molti privilegi, anche nel regime stalinista), che nel mondo ci stava/sta molto bene in termini di autorità, prestigio e altro. Questo distacco è stato/è giustificato dalla pretesa di essere particolarmente vicini a Dio perché lo si ricerca rinunciando ad ogni altra cosa. Questa grandiosa volontà di superare ogni limite umano a costo di una vita ascetica è la prigione alla quale il nostro teologo si è inconsapevolmente consegnato.
    Sergio Rossi

  6. aldosimone ha detto:

    Mi meraviglio solo di un fatto, leggendoti: come mai citi Feuerbach e non Marx, dal momento che gli uomini credono in Dio perché stanno male, come pensi tu insieme a Marx, e non stanno male perché credono in Dio, come pensa Feuerbach? Sono due posizioni molto differenti, tant’è che Marx non fu mai tenero con la cosiddetta “Sinistra hegeliana”. Personalmente sono d’accordo più con te e con Marx, piuttosto che con Feuerbach, il cui materialismo ingenuo è privo di quel senso storico che caratterizza invece il materialismo di Marx, il materialismo storico appunto. Ben venga dunque il materialismo di Marx, al quale non fa difetto neanche la visione dialettica congeniale tanto al tuo Marx quanto al mio Gentile: “I filosofi non hanno altro mezzo che la filosofia, a loro disposizione, per mutare il mondo” (G. GENTILE, “La filosofia di Marx”, Sansoni, Firenze 1962, p. 163) che fa da contrappunto alla celeberrima undicesima tesi di Marx: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo” (K. MARX, “Tesi su Feuerbach”, in ABBAGNANO FORNERO, “Protagonisti e Testi della Filosofia”, vol. C, , Paravia, Torino 2000, p. 384). Questo contrappunto implica una sostanziale convergenza: la filosofia deve, in un modo o nell’altro, farsi mondo, se vuole continuare, come ha fatto per secoli, a incidere sulla realtà. Questo è il vero problema: incidere sulla realtà. Riusciamo noi, in quanto interlocutori filosoficamente preparati, a farlo? Se penso a quei preti che noi conosciamo personalmente, come per esempio don Leone e don Loran, che dovrebbero passare dalla teologia alla filosofia, cioè dalle parole ai fatti, ne dubito. Se penso invece a Przywara, e alla sua straordinaria opera di trascrizione della teologia in filosofia e quindi in fatti, sono più fiducioso e ottimista. Ecco perché l’ho scelto come guida spirituale ed esistenziale, altro che rinchiudersi in una turris eburnea ascetica e asfittica!

  7. aldosimone ha detto:

    Caro Sergio e cari lettori del mio blog, vorrei adesso sgombrare il campo dalla interpretazione consolatoria della religione, cioè dall’ idea che l’uomo abbia creato Dio a sua immagine e somiglianza, per riempire il “vuoto esistenziale” della sua condizione e vincere il dolore provocato dalle varie forme di male che lo affliggono. Se questa tesi fosse vera, allora si potrebbe dire la stessa cosa anche di tutte le altre spiegazioni del problema del male e di tutte le altre proposte di soluzione dello stesso problema, che s’incontrano nella storia dell’umanità. Si potrebbe dire che anche la filosofia ha un carattere consolatorio, se si pensa alla “Consolatio Philosophiae” di Severino Boezio, alla teoria di Marx, che spiega a suo modo il male e propone una ricetta per sconfiggerlo: il male è rappresentato dalla divisione della società in classi e la soluzione dal comunismo (mi si perdoni la semplificazione un po’ grossolana). La stessa cosa si potrebbe dire della teoria di Freud: la gente sta male per le turbe sessuali che si porta dietro e la soluzione consiste nella cura psicanalitica di queste turbe. Di recente è nato un movimento chiamato “Transumanesimo” che promette la panacea di tutti i mali grazie alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica. E così via dicendo. Anche Gesù Cristo, più di duemila anni fa, ha fatto la sua diagnosi e proposto la sua terapia. Forse non avrà funzionato granché, come dimostrano gli esempi che ho fatto prima di una casta sacerdotale impreparata e svogliata, tuttavia è stata una grande rivoluzione, la più grande mai esistita, secondo Benedetto Croce (cfr. B. CROCE, “Perché non possiamo non dirci cristiani”, in “La mia filosofia”, Adelphi, Milano 1993, pp. 38-53). Il merito di Przywara è stato quello di far interagire il messaggio evangelico con le più disparate correnti filosofiche, fiorite prima e dopo l’avvento del Cristianesimo, pervenendo ad una superiore sintesi dialettica, e sottolineo dialettica per rimarcare il mio rapporto anche con Gentile, di ragione e fede, in cui c’è posto perfino per la Madonna: “Tu sei la notte / A cui il Signore si confida / Tu sei la notte / Che la sua vita apre: / Maria”. Questi versi sfociano, infine, nella seguente affermazione: “Das, im Geheimnis der Geheimnisse, ist Gott” (E. PRZYWARA, “Che ‘cosa’ è Dio?”, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, p. 172). Faccio la traduzione, non per te Sergio che conosci bene il tedesco, ma per tutti quelli che non lo conoscono: “Questo, nel mistero dei misteri, è Dio”. Infatti, l’ “Eterno femminino ci fa salire” fino a Lui, così come accade a Faust: “Alles Vergaengliche / Ist nur ein Gleichnis; / Das Unzulaegliche, / Hier wird’s Ereignis; / Das Unbeschreibliche, / Hier ist’s getan; / Das Ewig-Weibliche / Zieht uns hinan. (= “Tutto il peribile è solo un simbolo; l’inattingibile qui si fa evento; l’indescrivibile, qui ha compimento; l’ Eterno Femminino ci fa salire”, in GOETHE, “Faust”, Garzanti, Milano 1994, pp. 1081-1082).

  8. aldosimone ha detto:

    A conferma di quanto sopra, invito l’amico Sergio e insieme a lui i miei proverbiali “venticinque lettori” (A. MANZONI, “I Promessi Sposi”, Zanichelli, Bologna 1967, p. 18) a fare tesoro dell’analisi che Przywara elabora a proposito del carattere religioso, e quindi “consolatorio”, delle teorie sia di Marx sia di Bakunin (il padre dell’anarchia così come Marx lo è del comunismo), cioè la sistole e la diastole del rivoluzionarismo di sinistra: “Così il ‘materialismo dialettico’ nasce come ‘nuovo spirito’ – neuer Geist – rivoluzionario e tuttavia, anche se fin dall’inizio vuole essere ateo o anti-teista, scaturisce essenzialmente dal profetismo rivoluzionario del primo ebraismo, che (per quanto oggi non lo si voglia riconoscere) è il fuoco più intimo della riflessione di Marx…Per quanto Marx voglia sembrare ateo, è nel profondo un ebreo della più genuina antica alleanza. Allo stesso modo Bakunin, per quanto mostri un pensiero antiteista, è nel profondo un cristiano greco-ortodosso di quella nuova alleanza che attende e anticipa il regno del ritorno di Cristo” (E. PRZYWARA, “L’Idea d’Europa”, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2013, p. 107). Questo profetismo ebraico di Marx non viene smentito dal suo duro attacco contro gli ebrei, contenuto nel celeberrimo “Sulla questione ebraica” del 1848, perché Marx qui si cala, senza volerlo, nei panni di quei profeti dell’Antico Testamento che rimproveravano il loro popolo, “duro di cervice” e schiavo del denaro, esattamente come fa Marx, sia pure con motivazioni diverse (cfr. M. DISEGNI, “Critica della questione ebraica. Karl Marx e l’antisemitismo”, Bollati Boringhieri, Torino 2024).

    • Anonimo ha detto:

      di Sergio Rossi
      Aldo, ho letto le tue osservazioni. Ovviamente non ho gli strumenti adeguati per rispondere nei termini dovuti. Tuttavia.
      Il materialismo storico di Marx -nelle intenzioni del filosofo di Trier – permette il superamento della alienazione religiosa in quanto elimina le condizioni che portano alla alienazione. Il materialismo astorico di Feuerbach sa invece più di rivelazione, di scoperta che lascia il tempo che trova ( evidentemente però anche nella sua filosofia traspare il ribollire dei tempi! Infatti non credo che si possa dire che per F. la religione appaghi l’uomo).
      Che la filosofia possa incidere sulla realtà presuppone una concezione ottimistica dell’uomo ( la teoria che diventa forza materiale: unità di teoria e prassi), ma può essere anche ideologia. E’ un argomento molto complesso.
      Non credo che Marx abbia cercato di dare una definizione quasi metafisica del male. Marx ha analizzato dei rapporti sociali, i rapporti di produzione che portavano alla miseria del proletariato. A Marx interessano le contraddizioni che in seno alla società capitalistica porteranno a un loro necessario superamento. Certamente l’interpretazione marxiana della Seconda Internazionale smussa l’elemento della prassi rivoluzionaria e il marxismo diventa ‘attendista’. Qualcuno ha sì visto in Marx un riflesso messianico, una palingenesi rivoluzionaria propria dell’ebraismo e quindi intravede una ispirazione religiosa in Marx. Come del resto, ma qui penso in maniera sostenibile, è attribuita a Bakunin. Il movimento anarchico faceva e fa leva sul singolo, sulla azione individuale, si era diffuso perciò anche nel mondo contadino, era un appello alle singole coscienze…
      Freud è invece un intellettuale borghese. Molti disturbi psichici sono da imputare a forme di repressione degli impulsi sessuali, disturbi causati dalle relazioni sociali borghesi. Nella società borghese esiste un profondo disagio. Non essendo rivoluzionario, Freud non dice che bisogna cambiare le relazioni sociali e quindi limita a curare tali disagi con la psicanalisi.
      Gesù di Nazareth voleva portare il ’regno dei cieli’ sulla terra, cioè nuove relazioni tra gli uomini e realizzare quindi le promesse di un nuovo mondo, di cui era diffusa l’attesa. Proprio perché pacifista, ha messo in discussione l’autorità del suo tempo.
      Infine in merito a Przywara, sai che sono alieno dai discorsi che parlano di ‘misteri’, di ‘doni’ ecc. nell’inno a Zeus di Cleante si parla invece di ignoranza umana, che è da superare per gustare la grandezza divina.
      Il riferimento a Maria, intesa come la Madonna, è sicuramente interessante. Mi ricorda la Donna angelo del dolce Stil Novo, la figura di Beatrice. Forse qui Freud potrebbe darci una mano: perché una donna può elevarci? E c’è un corrispondente maschile per il sesso femminile? La donna forse rappresenta il sentimento, che è meno implacabile della necessità della legge e quindi più incline a esaudire le preghiere. (in ogni caso Oreste ha ucciso Clitemnestra e Oreste è stato alla fine assolto dall’Areopago anche se con l’aiuto di Atena).In merito agli ultimi versi del Faust, pur non essendo assolutamente in grado di esprimere un parere, mi pare che l’eterno femminino non sia Maria la Madonna, bensì la figura di Margarete, che Faust ha traviato e che è stata perciò condannata ( ma prima della condanna – nella prima parte del poema – si ode una voce :’Sie ist gerettet!? Lei è salvata!). Il rimorso per la morte della fanciulla tormenta Faust e il suo ricordo volge i suoi pensieri verso l’alto. Ma quale alto? Non credo verso il Dio cristiano.
      Sergio Rossi

  9. aldosimone ha detto:

    “Strumenti adeguati”? Se non li hai tu, chi potrebbe averli? Nessuno, ti assicuro, perché siamo circondati dal deserto, da un deserto che avanza inesorabilmente. A me sembra che, nella seconda metà del secolo scorso, gli studenti e le persone colte in genere si appassionassero di più alle cose di cui stiamo discutendo noi qui. Non parliamo poi dei preti, ormai arroccati nella cittadella dei loro privilegi sociali ed economici (a parte le fumisterie di papa Francesco), che prima invece amavano uscire allo scoperto e mettersi in gioco, come per esempio don Giussani e il parroco del mio paese d’origine. Rimpiango, se permetti, la loro combattività, non in quanto tale, ma perché foriera di ulteriori esperienze ed incontri proprio con quelli che la pensavano diversamente. D’accordo, Margherita è la protagonista femminile principale del “Faust”, ma l’ “eterno femminino” vale anche per la Madonna e per tutte le sante che ne hanno interpretato il ruolo di musa ispiratrice del cristianesimo più sfegatato, non quello “innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft” (cfr. I. KANT, “La religione entro i limiti della sola ragione”, Laterza, Roma-Bari 1980), ovviamente. Io vedo la devozione come un'”immagine mediatrice” (J. GUITTON, “Che cosa credo”, Bompiani, Milano 1993, p. 108) della filosofia, quindi perfettamente compatibile con essa, ma capisco che per te non è facile seguirmi su questo terreno. Tuttavia, al di qua di qualsiasi “immagine mediatrice”, c’è pur sempre la ragion pratica, per la quale “wenn die menschliche Natur zum hoechsten Gute zu streben bestimmt ist, so muss auch das Mass ihrer Erkenntnisvermoegen, vornehmlich ihr Verhaeltnis untereinander, als zu diesem Zwecke schicklich angenommen werden” (I. KANT, “Critica della ragion pratica”, testo tedesco a fronte, BUR, Milano 1992, p. 464). A questo destino, al destino di “tendere” (streben) verso il sommo Bene, nessun essere umano, degno di questo nome, potrà mai sottrarsi!

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