La tesi di Vannacci, secondo cui viviamo in un mondo capovolto, va presa seriamente in considerazione, non solo perché il libro è in testa alle classifiche dei libri più venduti, ma anche perché ben argomentata, quindi può essere condivisa o confutata solo dopo un’attenta lettura, sine ira ac studio!
Qualora poi questa lettura dovesse sfociare in un sostanziale assenso, si pone il problema di come fare a ricapovolgere la situazione.
Infine, bisogna capire bene a quale modello di società e umanità ci si può ispirare nell’attuazione di questo ricapovolgimento.
In primis, scorrendo il libro in lungo e in largo, sono arrivato alla stessa conclusione alla quale è arrivata Lucetta Scaraffia sulla “Stampa” di Torino: il libro non è razzista e non è omofobo. I passi incriminati sono notori, perché la ben orchestrata campagna denigratoria li ha già ampiamente divulgati. Per esempio, quello in cui l’autore descrive il suo primo contatto con le persone di colore all’età di soli sette anni: “Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, ecc.” (p. 72). A me non sembra che si possa ravvisare in ciò del razzismo, così come non mi sembra razzista il riferimento all’atleta italiana Paola Egonu (p. 83). Non escludo che queste parole possano urtare la suscettibilità di qualcuno, ma non rientrano nella definizione classica di razzismo, per la quale rimando il lettore alla Treccani. Ciò nonostante, io personalmente preferisco chi onora l’Italia, nero o bianco che sia, a chi la disonora, nero o bianco che sia. Vengo poi all’accusa di omofobia. Vannacci insiste sul concetto, che a me non sembra omofobo, secondo il quale “per dare alla luce un bambino necessitano un uomo ed una donna” (p. 127), come non è omofoba la definizione che della famiglia dà l’art. 29 della nostra Costituzione: “Società naturale fondata sul matrimonio”, laddove per matrimonio la Treccani intende l’unione di un uomo con una donna. Quanto al concetto di “normalità”, mi permetto di muovere la seguente obiezione all’autore: normale non è, secondo me, sinonimo di comportamento più diffuso, ma di comportamento più universalizzabile, cioè che si può estendere a tutti senza temere conseguenze deprecabili. Orbene, il comportamento omosessuale, pur essendo pienamente legale come per legge, è moralmente censurabile, perché se si estendesse a tutti, in linea teorica, l’umanità rischierebbe l’estinzione, nel caso in cui si escluda ovviamente la pratica dell’utero in affitto.
Punto secondo: come ricapovolgere questo mondo capovolto o al contrario? Impegandosi, come faccio io col mio blog, nella delnociana, o se si preferisce togliattiana, “battaglia delle idee”, che consiste nella dialettica e non violenta negazione della negazione. Disapprovo con forza, perciò, tutte le altre soluzioni, quelle che, per esempio, contemplano l’uso di massicci bombardamenti sulla popolazione civile: qui habet aures audiendi audiat!
Punto terzo: quale modello di società e umanità possiamo proporre in alternativa al mondo capovolto di cui, giustamente a mio parere, si lamenta Vannacci? Quello tradizionale, certamente, ma rivisitato alla luce della filosofia moderna e, in particolare, di quella di Croce e Gentile, i Dioscuri della filosofia italiana che fanno tesoro del “Cogito” cartesiano, il quale non è, come sostiene Vannacci (p. 21), responsabile del soggettivismo relativista, ma il fondamento di un soggettivismo trascendentale, in cui l’individuo empirico trascende sé stesso, cercando nell’alter il socius.