PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI “CROCIANI”, MA CUM GRANO SALIS!

Il 20 novembre 1952 si spegneva a Napoli, all’età di 86 anni, il filosofo Benedetto Croce, autore, fra l’altro, di un saggio intitolato Perché non possiamo non dirci “cristiani” (1942), nel quale cercava di smussare la sua posizione anticonfessionale, riconoscendo l’importanza della rivoluzione cristiana nella storia dell’umanità: “Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo” (B. CROCE, in La mia filosofia, Adelphi, Milano 1993, p. 38).

Tuttavia, nella sua filosofia, rigorosamente storicista, non ci fu mai posto per la metafisica, cioè per quel ramo della filosofia che, grazie soprattutto all’ontologia o studio dell’essere in quanto tale, ha rappresentato da Aristotele ad Heidegger il motore del pensiero occidentale. Questa caratteristica essenziale del suo pensiero gli ha procurato nell’ambiente culturale italiano, e non solo italiano perché la sua fama si diffuse in Europa e nel mondo sin dalla pubblicazione dell’Estetica nel 1902, il titolo onorifico di Papa laico, cioè di esponente di spicco di quella visione del mondo che rifiuta, a volte, perfino il dialogo con quell’altra visione caratterizzata dall’apertura ad una integrazione che viene dall’alto. Questa integrazione ha a che fare con una Rivelazione divina diffusasi grazie ad una istituzione ben precisa che si chiama Chiesa Cattolica, la quale, pur perdendo via via la sua originaria unità, non ha mai perso attraverso i secoli universalità e autorevolezza. Pertanto, è con essa che il crocianesimo, se non proprio Benedetto Croce in persona, si è trovato spesso in attrito, finché l’affermazione dei totalitarismi del XX secolo non lo ha indotto a trovare un’intesa pragmatica con la suddetta istituzione e, soprattutto, con la principale, in Italia, propaggine politica di essa: la Democrazia Cristiana di De Gasperi.

Ciò nonostante, il problema di fondo, quello della scarsa attenzione al problema metafisico per antonomasia – perché c’è l’essere anziché il nulla? – rimase sempre aperto e lo è tuttora, nell’ambito crociano. Quali sono dunque i termini della questione? Da una parte, quella crociana, c’è l’assunzione quasi dogmatica del criterio hegeliano dell’immanenza assoluta, secondo il quale la Verità si cala completamente nella realtà storica, dissolvendo così ogni residua traccia della vecchia trascendenza. Dall’altra, non esiste una sola scuola di pensiero, ma varie personalità e varie correnti che invece ammettono un rapporto con la Trascendenza più o meno decisivo e determinante. Apro parentesi: immanenza e trascendenza, in filosofia, sono due modi di essere così del pensiero come della realtà. Il primo, l’immanenza, riduce tutto a storia e storiografia, non a caso Croce fondò a Napoli, a Palazzo Filomarino dove ancora ha sede, quello che lui volle chiamare “Istituto di Studi Storici” e non filosofici; il secondo, la trascendenza, rimanda ad un Aldilà indipendente dalla storia e ad un pensiero metafisico in grado di esplorarlo. Queste personalità e queste correnti si possono far rientrare in un’unica grande famiglia alla quale spetta il nome di spiritualismo cristiano, avvezzo a confrontarsi con quelle tre o quattro questioni fondamentali a cui Croce non volle mai dare una risposta chiaramente positiva e che neppure volle apertamente affrontare.

Le questioni metafisiche più importanti, oltre a quella fondamentale sull’essere cui accennavo prima, sono: 1) la libertà del volere di ciascuna persona, intendo quindi una libertà creaturale ben diversa da quella della crociana “religione della libertà”, che ha una valenza universale e impersonale; 2) l’immortalità dell’anima individuale che non è la stessa cosa dell’immortalità riservata da Croce alle quattro categorie dello Spirito (da cui la facile accusa di aver fondato la filosofia delle quattro parole): il vero, il bello, il bene e l’utile; 3) l’esistenza di un Dio Persona o Trinità di Persone, onnipotente, creatore del cielo e della terra e, soprattutto, giudice giusto e misericordioso; 4) la presenza nell’uomo di un peccato di origine, di un “male radicale” come lo aveva chiamato il buon vecchio Kant, al quale spetta la definizione dell’essere umano come “legno storto” e “da un legno storto – scrive nelle Idee di una storia universale da un punto di vista cosmopolitco – come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto”.

Ebbene, proprio Kant, secondo me, rappresenta il giusto punto di equilibrio tra lo storicismo crociano e lo spiritualismo cristiano, perché, pur riconoscendo i limiti della metafisica – sono celeberrime le sue confutazioni delle varie prove dell’esistenza di Dio – non smette di comportarsi come un “innamorato” deluso o non corrisposto e alla metafisica dedica la conclusione di tutta la sua produzione filosofica culminante, non a caso, nei tre famosi postulati della libertà, dell’anima e di Dio.

OTTANT’ANNI FA

Esattamente ottant’anni fa, il 4 novembre 1942, scattava l’ultimo decisivo attacco all’ A.C.I.T. (=Armata Corazzata Italo-tedesca) da parte delle truppe corazzate inglesi, sul fronte di El Alamein. In particolare, la nostra principale divisione corazzata, l’ “Ariete”, si sacrificava nel vano tentativo di arrestare l’avanzata nemica e il suo comandante lanciava il seguente, ultimo, radiomessaggio: “Carri armati nemici fatto irruzione a sud dell’ ‘Ariete’, con ciò ‘Ariete’ accerchiata. Trovasi circa 5 km nord-ovest di Bir el Abd. Carri ‘Ariete’ combattono”.

L’armamento principale dell’ “Ariete” era costituito dal carro armato medio M13/40, prodotto dall’Ansaldo con motore FIAT. Pur non essendo una vera e propria “scatola di sardine”, come il carro leggero L3/35, aveva una corazza, una velocità e una potenza di fuoco decisamente inferiori a quelle dei suoi rivali inglesi, in gran parte di produzione americana, come il carro M3 “Lee/Grant” e lo “Sherman”, un colosso da 30 tonnellate, mentre il suddetto M13/40 non superava le 13 tonnellate. Inoltre, il numero dei nostri carri era decisamente inferiore, il carburante scarso e la protezione aerea inesistente.

Pertanto, la sera di quello stesso giorno, Hitler e Mussolini autorizzarono il ripiegamento di tutte le truppe dell’Asse in Africa settentrionale, ma a Sud dello schieramento qualcuno resisteva ancora: la “FOLGORE”!

Divisione composta da paracadutisti e mandata in Africa a combattere tra le dune del deserto quasi a mani nude, a parte il bellissimo fucile mitragliatore MAB della Beretta e un cannone anticarro dall’inconfondibile sagoma di un elefante, appunto per questo detto “Elefantino” (= 47/32), era destinata con l’Operazione C3 ad essere lanciata su Malta per svellere la principale spina inglese nel fianco dell’Asse in tutto il Mediterraneo centrale. Fu annullata da Rommel, la cosiddetta “volpe del deserto”, e da Hitler che scrisse a Mussolini una lettera che si concludeva con le seguenti, enfatiche, parole: “La dea della fortuna delle battaglie passa accanto ai condottieri una volta soltanto: chi non l’afferra in un momento simile non potrà, assai spesso, raggiungerla mai più” (in P. RASTELLI, “Le sabbie del deserto”, Corriere della Sera, Milano 2022, p. 32).

D’altronde, non vi sono ormai dubbi sull’attribuzione della principale responsabilità della sconfitta dell’Asse nella Seconda guerra mondiale: essa ricade interamente sulla Germania hitleriana che attaccò l’ URSS senza un ragionevole motivo strategico, utilizzò una macchina per cifrare e decifrare messaggi segreti, chiamata “Enigma”, sistematicamente violata da un’altra macchina più sofisticata e chiamata “Ultra” in mano agli inglesi, e, infine, annullò l’Operazione C3, che avrebbe permesso al suddetto ACIT di muovere i propri mezzi senza la costante preoccupazione di rimanere a secco, cioè a corto di carburante.

Ciò premesso, il valore della “Folgore” fu riconosciuto da tutti, in primis da Churchill che in un discorso alla Camera dei Comuni di Londra disse: “Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della ‘Folgore’… ” (in A. BECHI LUSERNA e P. CACCIA DOMINIONI, “I ragazzi della Folgore”, Longanesi, Milano 1970, p. 251). Non a caso sul sacrario militare italiano di El Alamein campeggia la seguente epigrafe: “Fra sabbie non più deserte son qui di presidio per l’eternità i ragazzi della Folgore, fior fiore di un popolo e di un Esercito in armi. Caduti per un’idea, senza rimpianti, onorati dal ricordo dello stesso nemico, essi additano agli italiani, nella buona e avversa fortuna, il cammino dell’onore e della gloria. Viandante, arrestati e riverisci. Dio degli Eserciti, accogli gli spiriti di questi ragazzi in quell’angolo di cielo che riserbi ai Martiri e agli Eroi”.

Dal 1969, inoltre, questa stessa epigrafe orna la Cappella “Folgore” di Castro Marina, tra Leuca e Otranto, nella mia incantevole terra d’origine: il Salento. Posta in una posizione altamente suggestiva, essa invita tutti gli italiani a non dimenticare i propri Caduti e ad emularli oggi e sempre!