Lo spirito di Donoratico

art_konradSta scritto: “Il vento soffia dove vuole, senti il suo sibilo, ma non sai donde viene né dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito” (GIOVANNI, 3,8). Ebbene, in quel di Donoratico, in provincia di Livorno, a pochi passi dai famosi “cipressi che a Bolgheri alti e schietti / Van da San Guido in duplice filar” (G. CARDUCCI, Davanti San Guido), risiede attualmente, presso i resti di un antico castello medievale fatto costruire dai Conti della Gherardesca, Padre Konrad zu Loewenstein, un sacerdote della Fraternità Sacerdotale San Pietro. Come ci sia “piovuto” un Loewenstein da queste parti è presto detto: sua sorella Theodora ha, infatti, sposato Manfredi  della Gherardesca. Quindi c’è un rapporto di parentela, chiaro e tondo, che spiega la sua presenza in questo posto, ma non basta, perché il vero motivo è un altro: è lo Spirito giovanneo, quello che, come il vento, soffia dove vuole, ad averlo rapito e spinto a rifugiarsi in uno dei luoghi più incantevoli e suggestivi d’Italia.

Per fare che cosa? Si chiedono in molti. Certamente per pregare e contemplare il Verbo Incarnato, celebrando la S. Messa in rito romano antico, secondo i canoni della intramontabile liturgia cattolica tradizionale. Ma non solo. Egli, infatti, è sempre pronto a dare prova delle sue straordinarie doti di omileta e teologo a chiunque habet aures audiendi, ed io, nel mio piccolo, gli ho fatto, come si suol dire, da spalla, in occasione di una conferenza da lui tenuta al Circolo “Il Fitto” di Cecina, il 28 febbraio 2015, avente come tema: La Fede Cattolica: il suo oggetto, la sua luce ed il suo scopo.

Ora, una “lingua mortal” come la mia  non può ripetere quel che egli ha detto, pertanto, mi asterrò dal darvi qui un resoconto del suo forbito eloquio;  rientra invece nelle mie possibilità, e nella mia sfera di competenza, ragguagliarvi sulla introduzione di carattere filosofico che io stesso ho svolto prima che Padre Konrad prendesse la parola.

Tale introduzione si articola in una premessa e in tre pilastri.

PREMESSA

Ogni buona teologia presuppone una filosofia altrettanto buona e, più precisamente, una metafisica dell’ essere in grado di fondare su solide basi qualsivoglia teologia. Siccome poi, quando si parla di metafisica dell’ essere, il pensiero corre subito a San Tommaso d’Aquino, ho individuato in quest’ultimo la fonte primigenia di ogni corretto ragionamento filosofico. Naturalmente, si può mettere in discussione tutto in filosofia, ma che quello tomista e aristotelico sia l’ approccio filosofico più congeniale ad un’organica visione teologica di stampo rigorosamente cattolico è, sia dal punto di vista storico sia da quello teorico, un’ovvietà inquestionata.

In che cosa consiste più esattamente la metafisica tomista dell’ essere? Nell’ anteporre a qualsiasi altro principio l’ esse ut actus essendi (essere come atto d’essere), distinguendolo sia dalla semplice esistenza delle cose (l’ esistenza va e viene, è concreta ma transeunte) sia dallo loro semplice essenza (l’ essenza è sì eterna ed immutabile, ma è astratta). L’ essere, invece, est actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium perfectionum” (è l’attualità di tutti gli atti e a causa di ciò è la perfezione di tutte le perfezioni), secondo S. Tommaso, in polemica con Avicenna che considerava l’essere un semplice “accidente”, accessorio, dell’ essenza.

Inoltre, l’ esse ut actus essendi si diversifica nell’essere  per partecipazione e nell’ essere per essenza. Il primo è contingente e appartiene a tutti quegli enti la cui essenza non coincide con l’esistenza, perché non sono l’ essere, ma hanno l’ essere per partecipazione; il secondo appartiene all’unico ente per sé necessario, nel quale l’essenza coincide con l’esistenza. Questi è l’essere per essenza o per antonomasia, come insegna la Bibbia stessa nell’Esodo, dove sta scritto “Io sono colui che sono”, questi è Dio!

Viene così inconfutabilmente motivata la dipendenza ontologica di tutte le creature dal loro Creatore ed esclusa ogni forma di panteismo, dottrina per la quale tutta la realtà s’identifica con Dio, proprio perché  tutto l’essere è necessario tanto quanto quello divino.

1°  PILASTRO
Il primo pilastro di una corretta filosofia in grado di fungere da vera e propria ancilla theologiae, è rappresentato dal concetto stesso di verità. Oggi, purtroppo, sono rimasti in pochi quelli che credono che la verità esista e che si possa trovare da qualche parte. I più parlano e ragionano come Ponzio Pilato, il quale chiese ironicamente a Nostro Signore Gesù Cristo: “Quid est veritas?” Poi ci sono quelli più raffinati che si rifanno al famoso frammento di Friedrich Nietzsche, secondo cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”. Gli è che, quasi sempre, quelli che dubitano della esistenza della verità sul piano teorico, manifestano poi grande interesse a consolidare, sul piano pratico, la dittatura del relativismo, vero flagello della cultura contemporanea, in nome del quale si giustifica tutto e si chiede prepotentemente di accettare tutto, anche ciò che confligge con la retta ragione e la natura stessa delle cose. Pertanto, la prima battaglia da combattere è proprio quella in difesa del concetto stesso di verità. La seconda consiste nello spiegare bene che cos’è la verità.  Infatti, non si può spacciare per verità qualcosa che non lo è, come per esempio, la soggettiva interpretazione della realtà, oppure la presuntuosa conoscenza empiriometrica della natura, come sta succedendo di recente con quelle neuroscienze che mirano a dimostrare la non esistenza dell’anima e della libertà, oppure ancora l’analisi storica dei processi di produzione della ricchezza, che riduce tutto ad economia e ad una lotta irriducibile tra le classi. D’altronde, non è forse vero che i principali nemici della verità sono il nichilismo di Nietzsche, il positivismo, più o meno aggiornato, di Popper ed il comunismo del vecchio Marx? Ad essi bisogna contrapporre quella sana dottrina tomista che definisce la verità come adaequatio rei et intellectus, cioè conformità della mente e della cosa. In quest’ultima decisiva battaglia ritengo che sia possibile un’alleanza, non proprio politica ma anche politica, tra tomismo e idealismo hegeliano-gentiliano, che i tomisti della vecchia guardia hanno sempre categoricamente escluso. Come questa alleanza si possa effettivamente pensare e dispiegare è un compito ancora da svolgere.

2°  PILASTRO
Il secondo pilastro è rappresentato da un’altra famosa formula tomista: gratia non tollit naturam, sed perficit (=la grazia non sopprime la natura, ma la perfeziona), il che significa, altresì, che la fede non è mai contro la ragione, ma, semmai, al di sopra di essa. A dire il vero, nella lunga storia della Chiesa cattolica su questo punto non sempre c’è stata perfetta convergenza tra S. Tommaso e gli altri grandi teologi cattolici, come per esempio, S. Bonaventura da Bagnoregio, il quale, una volta, ebbe a dire che conciliare la ragione con la fede, cosa che stava molto a cuore a S. Tommaso, era come versare dell’acqua nel vino. Al che S. Tommaso gli rispose, da par suo, dicendo che era piuttosto come tramutare l’acqua in vino, facendo così riferimento a quel primo miracolo di Nostro Signore Gesù Cristo, che più di tutti gli altri, forse, ci fa capire quanto Egli fosse attento anche alle cose di questo mondo, oltre naturalmente a quelle dell’altro mondo, il cosiddetto Regno dei Cieli. Sta di fatto che tra l’Ordine di S. Tommaso d’Aquino, quello domenicano, e l’Ordine di S. Bonaventura da Bagnoregio, quello francescano, c’è sempre stata un po’ di ruggine, proprio perché il primo insisteva di più sull’autonomia della ragione, mentre il secondo insisteva di più sulla superiorità della fede. Superiorità che neanche S. Tommaso metteva in discussione, ma solo nel suo specifico campo che è quello riguardante la salvezza eterna dell’ anima. A questo proposito, giova ricordare la brillante soluzione adottata dal nostro sommo poeta Dante, affinché questi due straordinari Ordini religiosi ed i loro rispettivi campioni ritrovassero la giusta armonia. Egli, infatti, nel Paradiso, fa tessere gli elogi di San Francesco a San Tommaso e quelli di San Domenico a San Bonaventura, rendendo così molto bene l’idea di quella Comunione dei Santi che è uno dei fondamenti della dottrina cattolica e che nessuna disputa terrena potrà mai scalfire.

3°  PILASTRO
Infine, bisogna ribadire con forza che l’ esistenza di Dio può essere dimostrata razionalmente, così come fa S. Tommaso d’Aquino con le sue famose cinque “vie” e così come afferma Padre Konrad nel suo Breve Catechismo dogmatico, all’articolo 13: “L’esistenza di Dio si può conoscere con certezza mediante la sola ragione, come Principio e Fine di tutte le cose”.

Per quanto riguarda l’esposizione delle “vie” tomiste, rimando al mio libro Le briciole di Minerva. Tuttavia, ritengo opportuno proporne una anche qui, sia pure  sommaria, sottolineandone, soprattutto, il carattere a posteriori, cioè l’ aderenza a quella impostazione realistica che è propria sia di Aristotele sia di S. Tommaso e che si riassume nella seguente formula, non  propriamente tomista, ma sicuramente riconducibile al tomismo: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu (niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi). Infatti, S. Tommaso respinge esplicitamente la prova ontologica di S. Anselmo, una prova a priori, ovvero la prova a priori per eccellenza, perché basata su una pura deduzione logica: se Dio è, per definizione, aliquid quo nihil maius cogitari possit (ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore), allora non può non avere anche l’esistenza, perché se lo pensiamo privo dell’ esistenza, allora vuol dire che non lo abbiamo pensato veramente tale da non poterne pensare uno più grande, essendo possibile  pensarlo anche come esistente. Giovanni Fornero, ricalcando il pensiero del suo grande maestro Nicola Abbagnano, spiega molto bene la posizione di S. Tommaso rispetto a quella di S. Anselmo quando scrive che per il primo  “l’argomentazione anselmiana era valida solo a patto di presupporre già, ‘sottobanco’, ciò che s’intendeva dimostrare, cioè che l’essere perfettissimo esiste: dopo di che, si poteva ben dire, a ragione, che il tale essere perfettissimo non può fare a meno di esistere. Ma il problema non è di sapere se l’essere perfettissimo, in quanto tale, non possa fare a meno di esistere, ma di sapere se esso realmente esista” (N. ABBAGNANO G. FORNERO, Percorsi di filosofia, Vol. 1° B, Paravia, Torino 2012, p. 175). Sulla stessa linea si collocherà poi Immanuel Kant, nella sua celeberrima Critica della ragion pura, il quale, però, commetterà l’ errore di ridurre le altre due prove, quella “cosmologica” (basata sull’osservazione del mondo esterno) e quella “teleologica” (basata sul concetto di fine),  sostanzialmente corrispondenti alle cinque vie tomiste, a quella ontologica.

Or bene, le “vie” tomiste che conducono alla dimostrazione metafisica dell’ esistenza di Dio sono le seguenti:

  1. ex motu, perché parte dal principio aristotelico secondo cui “tutto ciò che si muove è mosso da altro” e questo da un altro ancora e così via. Ma non si può procedere  all’infinito, in tal caso, infatti, si dovrebbe ammettere che non esiste un primo motore. Il che è assurdo, perché se non c’è un primo motore non ci saranno neppure gli altri motori che sono, invece, una realtà inconcussa.  Quindi esiste un primo motore immobile che chiamiamo Dio.
  2. Ex causa. Anche in questo caso non si può risalire all’infinito di causa in causa; in tal caso, infatti, non vi sarebbe una causa prima, capace di spiegare l’ esistenza di tutte le altre cause, alcune delle quali sono sotto i nostri occhi. Quindi esiste una causa prima, incausata, che chiamiamo Dio.
  3. Ex contingentia. Questa si basa sulla distinzione tra ciò che è contingente, cioè semplicemente possibile,  e ciò che, invece, è necessario, ma ciò che è necessario o ha la causa della sua necessità in sé oppure in altro e così pure quest’ultimo, via via fino ad arrivare ad un ente che è  necessario di per sé e che chiamiamo Dio.
  4. Ex gradu, basata sulla constatazione che in tutti gli enti ci sono gradi diversi di perfezione, ma se c’è il “meno” ed il “più”, ci dev’essere anche il grado massimo, da cui il “meno” ed il “più” scaturiscono, e che si presenta come quella perfezione somma che chiamiamo Dio.
  5. Ex fine, cioè dall’ordine che governa tutte le cose di questo mondo si deduce che ci dev’essere una suprema intelligenza ordinatrice che chiamiamo, ancora una volta, Dio.

Quest’ultimo pilastro è quello che più direttamente c’immette nel mare magnum della teologia, per addentrarci nel quale c’è proprio bisogno  di Padre Konrad zu Loewenstein, del cui carisma v’invito a fare personalmente esperienza  in quel di Donoratico.

Aldo Simone